Una recente intervista di Smargiassi a Don McCullin, il celebre fotografo scozzese, mi aveva incuriosito: così mi sono procurato la sua autobiografia dal titolo: “Un comportamento irragionevole” (edizioni Contrasto), e l’ho letta quasi di getto.
Nel libro l’autore racconta molte delle situazioni che ha vissuto a stretto contatto con il dolore, la morte, la paura. Non è stato mai nelle retrovie e negli alberghi ad aspettare, ma sempre alla ricerca della situazione “calda”, anche a costo di gravi rischi e di numerose ferite. Eppure è sempre ripartito, dal 1963 quando ha scattato le foto sulla crisi cipriota agli anni ‘90 quando ancora è nel Medio Oriente. In effetti, è difficile capire, trovare una spiegazione al perché McCulllin fosse così attirato dalle situazioni di guerra, tra cadaveri, mutilazioni di ogni tipo, città distrutte, ecc.. Ad ogni conflitto nel libro dedica poche pagine, accompagnate dai suoi fotogrammi, raccontando solo i momenti “complicati” e intensi, gli incontri con i giornalisti con cui condivideva alcune delle sue imprese; ed è come trovarsi immergersi in quelle situazioni, tanto sono raccontati con partecipazione.
In psicologia forse lo definiremmo un tipo “resiliente”, una persona che pur in mezzo a molte avversità, ad una serie di eventi stressanti , è dotato della capacità di resistere,di non farsi scalfire o demotivare e ad essere pronto per la volta successiva (anzi, di non vedere l’ora di partire). Con gli anni i suoi reportage spostano il focus dal raccontare delle vicende militari dei soldati a occuparsi sempre di più di civili e delle conseguenza dei combattimenti, dei bombardamenti sulle popolazioni.
Parallelamente è una testimonianza di come è cambiato il rapporto tra fotografi ed editori dei giornali, del ruolo della fotografia che diventa meno “capace di influenzare l’andamento della storia”, e dello spazio sempre più ridotto per le immagini scomode.
Il suo diario mi ha fatto riflettere sulle tante guerre che ci sono state in questi anni, a come le avverto “lontane”; quasi un agile libro di storia contemporanea, scritto da un fotografo, che riannoda questi eventi a quelli che apprendevo nei banchi di scuola, dove le lezioni arrivavano (nella migliore delle ipotesi) alle seconda guerra mondiale. E’ come se si saldasse una interruzione della memoria.
Poco invece trapela della sua vita privata, a cui dedica poche pagine all’inizio. E’ come se volesse farci pensare che la sua vita, in fondo, corrispondesse alla sua produzione fotografica. Di un personaggio così avventuroso che ne è della sua famiglia, del rapporto con la moglie, o con suoi tre figli? Solo verso la fine, in alcune tenere righe racconta la separazione dalla moglie per una nuova compagna con cui ha una relazione da qualche anno. Poco dopo la separazione, l’ex moglie muore:
“ avrei potuto fotografare tutta la vita, ma la fotografia non ha nulla a che fare con la vera umanità…”
Poco dopo la morte della prima moglie ci sarà la separazione anche dalla nuova compagna con cui nel frattempo aveva anche avuto un figlio.
Il finale del libro lascia l’impressione di una persona eccezionale nel lavoro, celebre, con molti riconoscimenti professionali eppure fragile psicologicamente, sola, più in difficoltà con i propri ricordi e comportamenti intimi che tra le esplosioni e i feriti. Quasi che questa sua esigenza di essere sempre in missione sia stata una fuga dalla difficoltà di gestire i rapporti interpersonali familiari, dalla fatica della vita quotidiana di una famiglia della classe media britannica.
La scrittura scivola via senza difficoltà, le emozioni e le situazioni vissute spesso rasentano l’incredibile. La documentazione fotografica è ridotta all’essenziale:
“Ora, dopo l’ultimo scontro con la vita, in casa ci sono anche i fantasmi dei miei amori. Con questo libro saranno liberi, forse.”
L’ultima frase (che ho riportato) fa capire che il libro ha avuto anche una funzione terapeutica per un personaggio pieno di cicatrici, non solo fisiche.