La retrospettiva sull’opera di Berengo Gardin ospitata alla Casa dei Tre Oci a Venezia è una occasione per rivedere molte delle immagini note e alcune di quelle meno conosciute del fotografo veneto.
E’ stata una visita che mi ha lasciato un po’ perplesso: forse la scelta dei curatori non rende merito alla grandezza del personaggio. L’impressione è che abbiano assemblato un po’ delle sue foto, di innegabile bellezza, ma che sembrano selezionate solo per mostrare il talento estetico dell’autore, trascurando di enfatizzare di suggerire altre chiavi di lettura delle immagini e della produzione di Berengo Gardin.
Esco spiazzato: se non avessi conosciuto un po’ l’autore (che emozione poter vedere la copia originale di “Morire di classe”, il libro edito da Einaudi, fatto con Carla Cerati su stimolo di Franco Basaglia, così importante in quel dibattito sulla chiusura e il ruolo dei manicomi negli anni ’70) avrei pensato ad una sorta di “turista per caso”, che osserva e scatta; mentre, secondo me è sempre stato un reporter raffinato e appassionato, un testimone interessato a documentare la vita quotidiana.
Ma lo scatto fotografico isola e sceglie: forse, come diceva Benni nella sua introduzione a “Italiani” edita da Federico Motta,”…in queste foto… siamo brutti ma veri… e Gardin ridà agli italiani una faccia…”.
Nella mostra mi pare si perda la parte di indagine sociale, di giornalismo per immagini, quasi a nascondere il timore che l’arte non debba “sporcarsi”. Certo ci sono foto di tutti i periodi e forse qualche commento in più non avrebbe guastato.
Eppure, i fremiti arrivano da allora, da quando un poliziotto lo rincorreva in Piazza S. Marco e lui fotografava Zavattini che partecipava alle lotte “contro una cultura dei padroni”, o le manifestazioni della campagna per il referendum relativo alla legge sul divorzio.
Il linguaggio resta invariato negli anni, testimoniando una limpida e consapevole coerenza con il bianco e nero e l’analogico. Coerenza o rigidità? I confini sono spesso labili e osservando le foto più recenti, per esempio quelle relative a Lucca, solo l’etichetta adesiva è in grado di orientarci nel tempo: è davvero stata scattata pochi anni fa? Se avessimo fatto il gioco di togliere le date dalle foto, avremmo dovuto cercare nelle immagini gli indizi per la loro datazione…il linguaggio è rimasto quello della felice stagione degli anni ‘60 e ’70; i fremiti ora sono quelli di uno splendido ottantatreenne.
2 commenti su “LA MOSTRA DI BERENGO GARDIN A VENEZIA”
I commenti sono chiusi.
Ciao Massimo, le tue recensioni sono sempre molto attente ed esplicative questa volta……. impietoso.
…impietoso Massimo non lo è stato certamente verso Gianni, ed anzi ha sottolineato che “è sempre stato un reporter raffinato e appassionato, un testimone interessato a documentare la vita quotidiana”, ma verso chi ha curato la mostra, il quale, anche secondo me, non ha saputo (o voluto?) mettere in giusta luce la personalità dell’Autore preferendo prevalentemente mostrare il suo talento estetico. Ma ben conosciamo Berengo e sappiamo come egli abbia saputo e sappia ancora far vibrare le corde del nostro animo addentrandosi nel mondo del sociale, fedele, oltre al suo modo di fotografare, oggi più che mai anche alle ideologie che sempre ha professato …. cosa ben rara di questi tempi!.
E permettetemi pertanto di considerare il suo atteggiamento molto più di coerenza piuttosto che di rigidità !